In ricordo del Prof. Gianni Mastella,

Mi è stato proposto di scrivere nel sito web della SIFC in ricordo del Prof. Mastella, che ci ha lasciato mercoledì 3 febbraio. Per evitare le commemorazioni ho preferito condensare in una lettera, una lunga esperienza professionale accanto al Prof. Mastella. Una esperienza non solo mia, quella anche di molti altri colleghi della mia generazione…

 

Caro Prof. Mastella,

non riesco nemmeno dopo tanti anni di conoscenza a non darle del Lei. Preferisco scrivere, mi riesce meglio, le parole entrano e scappano dal recinto dei pensieri, così è dei ricordi che provo ad afferrare per riannodare una storia…quella della fibrosi cistica in Italia.

La Fondazione è l’ultima pagina: una idea vincente, quella di stimolare università e laboratori italiani ad investire idee e progetti su una malattia rara e poco nota, ma intrigante per il suo intreccio tra genetica, organi e funzioni, tra speranze e storie di persone. Anche una scommessa, quella di superare le barriere tra la ricerca nei laboratori, quella nelle corsie e la cura, trovare una sintesi tra lo studio dei meccanismi e le necessità quotidiane delle persone con la malattia. Una pagina… su cui bisogna continuare a scrivere…

Era l’82: mi colpirono la segretaria sorridente (era la prima dopo anni che mi accoglieva con un sorriso) e la sua figura, che mi pareva massiccia, dietro una scrivania massiccia ed ingombra di cartelle. Volevo imparare il mestiere di pediatra e confrontarmi con una realtà difficile, ancora misteriosa in un contesto ospedaliero, quello del Centro di Verona, di cui leggevo in Prospettive in Pediatria. Nei 20 anni successivi, la storia del Centro si è srotolata lungo i nodi cruciali della cura di una malattia cronica che dall’età infantile e adolescenziale si affacciava verso i 20-30 anni di età.

Caro Prof. Mastella, Lei dirigeva il Centro e tutti, brontolando e scalpitando, seguivamo i suoi tempi: riunione sui “casi” verso le 13 (più spesso le 14), un panino in fretta prima o dopo, in corsia il mattino ed il pomeriggio, la ricerca clinica la sera… e la notte. Nulla era semplice e scontato: il prendersi carico significava accompagnare il paziente da ogni specialista per discuterne i quesiti e le soluzioni, o seguirlo in sala operatoria. Significava informare, ascoltare, condividere le decisioni ed addestrare alla terapia, pianificare ciò che sarebbe servito dopo la dimissione, identificare il supporto a casa del medico curante e dell’ospedale vicino. Prendersi carico era anche imparare e studiare, per fare meglio il proprio lavoro, il proprio “pezzo” di lavoro, per arricchire e consolidare con novità la realtà e l’esperienza assistenziale e di ricerca del Centro. Era anche conoscere ed apprezzare il lavoro degli operatori che lavoravano insieme a noi e fare squadra mettendo al centro il paziente e la sua famiglia. Era anche fare ricerca clinica, uno spazio di speranza ma anche di investimento personale. Incastrato tra le stanze di degenza e la direzione c’era il laboratorio di Biologia molecolare, a segnare una continuità di spazi ed un messaggio per chi sostava in quel luogo in cerca di speranza.

Le foto, che allego, sono un po’ sfuocate ma sono proprio un bel ricordo: il gruppo dei “15”! Il primo fu a Verona, ne seguirono altri sparsi in giro per la penisola. Era un incontro periodico con i medici conosciuti nelle diverse regioni ed interessati a farsi carico della malattia. Per una settimana si discutevano i problemi clinici di coloro che erano ricoverati, le procedure, i protocolli assistenziali, le ipotesi di ricerca. Quell’esperienza rappresentò il tentativo per provare ad interrompere la migrazione dei pazienti verso il Nord, verso le poche strutture specialistiche a cui affidarsi. Ciò preparò la strada ad un puntiglioso lavoro per arrivare alla legge 548 del 1993, che significò anche la possibilità di realizzare concretamente i centri regionali specialistici.

La complessità della cura diventò presto anche complessità del nostro lavoro: cominciò una fase pionieristica, guidata da specialisti del management sanitario, di riflessione sull’organizzazione del lavoro, sull’integrazione dei diversi operatori nel team di cura. Non è stato facile mettersi a nudo… mettere in discussione la modalità con cui ciascuno interpretava il proprio ruolo. I Seminari di Sirmione rappresentarono una apertura verso la realtà delle pediatrie ospedaliere, che potevano progredire quando si facevano carico della cronicità. E ciò valeva anche per i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta: con qualcuno di questi riuscì un aggancio proficuo, che ha rassicurato tutti, pazienti compresi.

… E altro ancora.

 

I capi ed i maestri sono anche ingombranti: sbuffavo, come tutti, quando trovavo nella buca della posta il suo “messaggio pinzato” (più tardi diventò una mail) … immediato era il fastidio per quel suo bisogno di tener sotto controllo ogni cosa ma poi il discuterne insieme stemperava le emozioni e contribuiva alla condivisione delle scelte… Più tardi ho riproposto a mia volta la stessa modalità ed ho anche compreso che le scelte comportano inevitabilmente il peso della solitudine.

Un saluto con affetto, anche a nome di quanti l’hanno conosciuta negli anni

Cesare Braggion